Il critico Giulio Montenero esprime il suo parere sui puzzle di fotografie e sulle tele a olio del giovane artista fiorentino Riccardo Paci

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I colori del Big-Bang

di Giulio Montenero

Nella prima edizione del concorso “The brain proiect”, il maggior riconoscimento andò a “Occhio 9”, 2006, opera del fiorentino Riccardo Paci, tessitura a puzzle formata dai frammenti di un prato fiorito, che vagamente richiamano “La Primavera” del Botticelli. Forse tale evocazione proviene dall’aria della città natale dell’autore, o forse da un archetipo iscritto nel suo DNA. Altra ipotesi è che il ricorso alla “Primavera” sia frutto di un precedente screening, intenzionato a raccordarsi su quei parametri di nitore razionale, che nel Quattrocento ebbero la più splendida epifania, e che fanno parte di una costante della cultura artistica toscana. Noi seguiremo questa seconda interpretazione.
E’ lecito pensare che l’attraversamento della poetica botticelliana sia stata una scelta determinata dalle esigenze della ricerca conoscitiva di Paci: trasparenza della materia, al fine di penetrarne l’intimità, e armoniosa rispondenza fra ciascun frammento e l’intiera immagine, condizione e insieme effetto della parcellizzazione, fino a trovare nelle profondità della natura il logos che anima i fenomeni e dà forma alla realtà.
Tutto il neoplatonismo fiorentino è permeato da tali principi. Ma soltanto il Botticelli li ha travasati appieno in pittura. Ed è significativo che lo abbia detto uno storico dell’arte giapponese, Yukio Yashiro, al quale le religioni immanentistiche della sua terra dischiusero la comprensione del Botticelli, onde, con il decisivo saggio del 1925, ne avviò la rivalutazione. Yashiro reputa gran fortuna che il Botticelli difettasse nel chiaroscuro e nelle sfumature del contorno, qualità che fanno il pittore plastico, per cui, “con la sua arte diede un dono raro per l’Europa: fu l’unico ad attuare una ‘presentazione’ libera ed eterea, invece della solita ‘rappresentazione’ realistica”.
Lo spessore semantico, così acquisito dal Paci, è il presupposto del passaggio dall’allegoria (le allegorie erano e sono frequenti nelle composizioni digitali; notissimo esempio è quello della foto dei caduti in Iraq che compongono il ritratto di Bush) alla sineddoche (fra il frammento e il tutto vi è reciproca rispondenza) e di un ulteriore trapasso dalla sineddoche alla metafora, metafora che esprime un’equivalenza fra due operazioni dinamiche: possiamo immaginare infatti che una prima processualità (dai segnali entrati nei fotoricettori retinici alla percezione cerebrale del campo visivo d’insieme, fenomeno fisiologico alluso dalla forma di un occhio) sia parallela alla processualità seconda (l’alternarsi dei ruoli fra l’operatore e il computer in una partnership reale, fino alla formazione dell’immagine elettronica nell’intiero quadro).
Nell’analisi della percezione viene superata d’un balzo la distinzione fra persistenza retinica e formazione eidetica, poiché il valore simbolico del colore è il fattore identificante di ciascun frammento, mentre gli altri elementi costitutivi sfuggono per la loro piccolezza ad ogni possibilità di definizione. Il senso reale e il senso poetico coicidono e restituiscono l’infinita molteplicità dei rispecchiamenti fra il microcosmo e il macrocosmo.
“Occhio 9” nasce dall’idea di un grandioso radiotelescopio che capta le onde provenienti dagli spazi e che guida l’artista a decifrarle, con la chiave di alcune sue selezionate memorie visive, e a tradurle nel linguaggio nostro, alla luce della ricezione sensoriale e della percezione emotiva e poetica. La complessità di questa concezione cosmica è ammirevole, ma finisce che, in conseguenza della complessità, l’artista ne venga imprigionato e ne vengano impedite le invenzioni future. A questo punto egli sa riconquistare la propria libertà.
L’artista, come spesso avviene, è mosso da pulsioni dialettiche bipolari. Nel caso nostro, si oscilla dal massimo di cosmicità al minimo di apertura al molteplice, dall’ingegnosità di funzioni matematiche intersecantesi, alla semplicità del sentimento diretto dell’infinito, che, per dirla con Kant, è il colloquio fra se stesso e le stelle. Le stelle e le acque di Riccardo Paci sono in realtà le voci più pure del suo essere nel mondo. Stelle e acque si rifanno al ciclo che precedette quello degli occhi. Si rifanno, in filosofia, a quel movimento, l’esistenzialismo, che nell’immediato dopoguerra rifiutò gli inganni delle false fedi, che avevano provocato gli orrori del secondo conflitto mondiale. L’unica verità proponibile viene dalla percezione immediata della propria esistenza. Dio solo sa quanto bisogno c’è, al presente, di un nuovo esistenzialismo che demistifichi gli inganni dell’imperialismo illiberale e totalitario, inganni in certo senso peggiori dei totalitarismi del passato, di certo più subdoli! Negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, l’arte che interpretò lo spirito dell’esistenzialismo fu l’informale, pittura che rifiutava ogni pretesto di rappresentazione esterna e particolare al fine di dar voce alla solitudine della coscienza, espressa riversando sulla tela il canto di un colore. Nascono così le sabbie gialle di Albers, i deserti rossi di Rothko, le onde e gli spruzzi di Vedova, i bersagli di Noland, gli occhi di Wols. I cicli tematici di Paci, che precedono e seguono l’opera dedicata alla memoria botticelliana, sono la verifica sperimentale di quella verità, verifica condotta con uno strumentario tecnologico-scientifico che nessuno finora aveva impiegato sugli ardui campi dell’ estrema soggettività.
Paci è partito dall’intuizione semplice e geniale di un paragone: i pixel delle fotocamere sono simili ai ricettori retinici, gli uni e gli altri sensibili soltanto al segnale che ciascun pixel e ciascun ricettore accoglie, modello e simbolo dell’isolamento della coscienza nella monade leibniziana. Le migliaia e i milioni di tali unità sensoriali, organiche o elettroniche, non entrano in colloquio fra di loro, se non per disturbarsi, per accecare con l’eccesso di luce. Perciò tanto la retina quanto il tappeto fotovoltaico sono propriamente dei deserti. Quando Paci percorre questo cosmo anodino, ma altamente significante, gli sembra ovvio sostituire alle cose i simboli, con un grande salto all’indietro, fino ad attingere dalla cosmologia biblica: il mare è il luogo del male; il deserto è il tempo dell’attesa; le stelle sono testimoni del gran numero dei figli d’Israele, l’organo della vista è richiamo all’occhio di Dio. Curioso è che Paci entra in questi sistemi simbolici per tosto uscirne rapidamente. Compie una veloce ricognizione fra le funzioni della fisica quantistica, per rifiutare poi ogni determinazione quantitativa e affermare il dominio totale ed esclusivo della qualità, ossia del sentimento, ossia del colore.
Ben si sa che ogni dato qualitativo può essere trasformato in dato quantitativo e viceversa. Ma soltanto i prodigi della digitazione, numerazione binaria che coglie le più sottili sfumature dei suoni e dei colori, e soltanto la ricerca di un ingegnere elettronico, qual è Riccardo Paci, permettono di attingere da un immenso strumentario quella misura particolare che corrisponde al momento e allo stimolo vissuti dall’autore all’interno del proprio temperamento.
Probabilmente lo strumento di scrittura di Riccardo Paci è destinato ad affinarsi ulteriormente. La tassellatura in piastrelle rettangolari scomparirebbe e resterebbe il puzzle, tessere con contorno che talvolta accompagna il bordo delle figure minuscole, altre volte le attraversa. Il colore di ciascun tassello non sarebbe più affine ai tasselli vicini, ma di questi riverberebbe i toni, come avviene con i pittori impressionisti, divisionisti e puntillisti. A questo punto cesserà anche la costrizione dei cicli tematici e il conseguente soggettivismo estremistico cederà il campo ad una nuova fase di cosmicità, che porterà dentro di sé il frutto della precedente esperienza. La formazione dell’immagine digitale alluderà al Big Bang dell’universo, a propria volta riferimento all’insorgere, nel primordiale emergere della coscienza, di quella terribile notte del mondo che, secondo Hegel, “si scorge quando si fissa negli occhi un uomo, che, per l’appunto è questo vuoto Niente, il quale tutto contiene nella sua semplicità-indivisa. La interiorità-o-intimità della Natura fa buio tutt’intorno, e appaiono rappresentazioni fantasmagoriche: qui sorge bruscamente una testa insanguinata, là un’altra apparizione bianca; ed esse scompaiono altrettanto improvvise”.


Giulio Montenero


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